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Documenti di dote

  • Immagine del redattore: libreriadelchiese
    libreriadelchiese
  • 22 gen 2016
  • Tempo di lettura: 1 min

Durante la ricerca “Storie di vita e di comunità”, realizzata dalla Associazione di promozione sociale “Il Chiese” con il sostegno della Fondazione della Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, abbiamo raccolto sette carte di dote.

In dialetto la carta era detta “stima da dòta” o “docömènt da dòta”. È una scrittura che contiene l’inventario dettagliato di quanto la sposa porta in casa del marito. Per ogni capo di vestiario o di biancheria (per la casa e personale) si indica il valore. Se la sposa morirà prima di avere figli, la “dòta” tornerà alla famiglia d’origine. In presenza di figli, resterà invece nella nuova famiglia. Della dòta facevano sempre parte due “bögaröle” (grembiuli) e il “tesolì” (tessuto di canapa e lino, usato per avvolgere cibi ma anche come copricapo).

A Storo si smise di redigere al “docömènt dä dòta” negli anni 30 del Novecento, forse perché a partire da quel periodo le ragazze, delle quali molte andavano a “servire” fuori paese, a Milano soprattutto, riuscivano a raggranellare qualche lira e a farsi una dote senza dipendere dal “padre-padrone”.

La dote era conservata in una cassa, che si componeva di solito di tre scompartimenti: uno più piccolo con coperchio per i cosiddetti “segreti”, come documenti, qualche soldo, “carte de stévare”; il secondo stretto e lungo (“cronèla”), ove si deponevano la candela per le processioni, gli aghi per far calze e maglie; il terzo, più ampio e centrale, serviva per la biancheria e gli indumenti. La chiave della cassa era conservata dalla sposa: era questo uno dei pochissimi segni di potere delle giovani spose nelle famiglie patriarcali di Storo.

Soro, anni 1960 circa: donne dell’ultima generazione che conobbero la carta di dote.

Storo 1907, prima pagina della carta di dote di Elisabetta Sai di Marco, sposata con Giovanni Scaglia Scàce.


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